29/07/2019 - GOOD MORNING GUANTANAMO


News

Si pubblica nuovo documento del Conisiglio Direttivo del 28.07.2019

 

 

 

 

 

La confessione è la regina delle prove, così scriveva Mario Pagano nei “Principi del Diritto Penale e Logica dei Probabili”; ed è vero, o quasi, almeno in un sistema penale moderno e garantito: nel nostro, già la codificazione di regime, sebbene improntata al modello inquisitorio, ne postulava limiti di utilizzo illustrati plasticamente dalla previsione del delitto di autocalunnia a presidio delle confessioni false, interessate o estorte. Da qui l’esigenza che l’ammissione del fatto reato sia sottoposta ad una verifica di credibilità, coerenza interna, spontaneità.
E se è vero, come è vero, che cautela ancor maggiore deve imporsi allorquando la confessione attenga non solo il fatto proprio, ma anche quello altrui ecco che sgomenta il trattamento riservato ad almeno uno dei giovani arrestati poiché sospetti di essere gli autori dell’omicidio di un carabiniere a Roma.
Il fermato, che ha reso spontanee dichiarazioni ammissive, in assenza del difensore, ritenute – evidentemente – utili per la immediata prosecuzione delle indagini, è apparso bendato e ammanettato, con i polsi dietro la schiena, negli uffici dell’Arma dove era stato condotto.
A tacer del fatto che, tecnicamente, la fattispecie concreta non sembra sovrapponibile alla esangue disciplina nostrana sulla tortura, certamente è un metodo di forte coartazione psicologica mettere una persona nelle condizioni di perdere cognizione dello spazio, di quanto accade intorno a lui, nel timore, non irragionevole, di essere destinatario, nella immediatezza, di atti violenza, senza la possibilità di capire quali, da parte di chi e di non potersi proteggere almeno utilizzando le braccia a mo’ di scudo.
Il tutto senza un motivo plausibile che non sia quello che sembra: fiaccare la resistenza e con ciò inducendo la rinuncia al diritto al silenzio.
Un sistema di tortura, forse, fuori dallo schema legale che non sappiamo con esattezza per quanto si sia protratto, né in occasione di quali accadimenti: prima, durante o dopo la verbalizzazione delle “spontanee” dichiarazioni; uno spettacolo che non avremmo voluto vedere neppure “al lordo” del dolore e della concitazione degli operanti dopo l’omicidio di un collega, che non fa onore all’Arma – i cui vertici hanno immediatamente preso le distanze dagli autori promuovendo iniziative penali e disciplinari – che potrebbe persino portare alla inutilizzabilità degli atti investigativi, che non aiuta il corso della giustizia e non illustra l’immagine di un Paese che dovrebbe essere di diritto.
Un sistema di tortura, perché altrimenti non può definirsi un trattamento atto a disorientare chi vi è sottoposto, raffinato, volto ad aggirare la legge penale e rozzo allo stesso tempo che richiama alla memoria le gesta del temibile Ufficio Affari Riservati.
Qualcosa che, a prescindere se chi ha subito tutto ciò sia o meno responsabile di un fatto di sangue, non avremmo voluto che accadesse, non da noi, che non vorremmo mai che fosse solo la punta di un iceberg, per non scoprire con orrore di esserci risvegliati in un luogo dove non vorremmo essere e sentirci dire: benvenuti a Guantanamo, Italia.

Milano, il 28 luglio 2019​​​​​​​​​

Il Consiglio Direttivo