23/06/2014 - Nota del Consiglio Direttivo


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Il conflitto in seno alla Procura di Milano e la 'non decisione' del CSM

 

Ponzio Pilato sembra essere passato recentemente da Roma ed aver trovato una comoda sistemazione proprio a Palazzo dei Marescialli.

La decisione con la quale il Plenum del CSM ha definito il “caso Milano”, infatti, ha scontentato  tutti nonostante la forte intenzione rassicurante che l’ha ispirata.

E non è solo una questione di mancati vincitori e vinti, che in questa sede non interessa proprio.

Il cuore del problema risiede nel “come” sono state affrontate le problematiche che il conflitto in seno alla Procura di Milano ha posto e nella mancata soluzione delle stesse.

La Camera Penale di Milano, nel momento in cui insorgeva quel “caso”, a seguito della denuncia avanzata da uno dei Procuratori Aggiunti e subito riportata dalle cronache, aveva ritenuto necessario intervenire sottolineando ciò che appariva, sin da allora, come un tema  di interesse generale ovvero i criteri di iscrizione delle notizie di reato e quelli che presiedono l'assegnazione dei relativi fascicoli; in sintesi i criteri organizzativi della Procura e, quindi,  l'esercizio concreto dell'azione penale.

E non aveva mancato di ricordare come quella tematica, e le questioni che sin dall'inizio apparivano ad essa riconnettersi, non avrebbe dovuto essere trattata come una questione riservata ed interna alla magistratura. 

Un tema di interesse generale, dicevamo, che contiene in sé anche  il presupposto dello stesso esercizio dell'azione penale: il potere che lo Stato costituzionale demanda ai rappresentanti della Pubblica Accusa non può certo considerarsi come l'espressione di un potere assoluto.

Gli irrinunciabili principi dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura (da ultimo richiamati a volte, come accaduto di recente, anche a sproposito dall' ANM), infatti, non possono consentire che l'esercizio di un potere così delicato, che è idoneo ad investire la stessa sfera di libertà dei cittadini, sia avulso da ogni controllo, al punto da risultare espressione di un'ampia ed incontrollata discrezionalità.

Su questo solco, del tutto disinteressato a vedere affermate le ragioni degli uni su quelle degli altri, è proseguita l'attenzione con la quale la Camera Penale ha assistito al dipanarsi dell'istruttoria presso le due commissioni del CSM ed ai riverberi assai luminosi di cui le cronache giornalistiche sono state a loro volta attraversate.

All'indomani della decisione del Plenum del CSM, riteniamo sia necessario intervenire nuovamente al fine di promuovere una riflessione, anche all'interno del Foro, su quelle tematiche generali e sui modi con i quali sono state affrontate.

Occorre, allora,  premettere una valutazione sul metodo attraverso il quale il CSM ha scrutinato, e quindi deciso,  le problematiche poste dalla ricordata denuncia.

Un metodo espressione delle più tradizionali logiche di corrente che si sono attivate con particolare vigore impadronendosi di quelle tematiche generali, così impedendo che sulle stesse venisse operata una valutazione serena e scevra da logiche di appartenenza.

Il vero punto focale della vicenda, infatti, era il metodo con il quale impostare e gestire le indagini, quale fosse il responsabile delle stesse, quali fossero i criteri con i quali assegnarle ai singoli sostituti ed ai dipartimenti.

Sullo sfondo, quindi, si trattava di dare un'interpretazione alle norme  della legge Castelli-Mastella  di riforma dell'ordinamento giudiziario anche sulla base di quanto, nel recente passato, lo stesso CSM aveva valutato in relazione ad altri conflitti insorti nelle Procure di Genova, Napoli e Catania.

Ancora una volta si trattava di valutare quale fosse la portata e l'ampiezza della sfera e del perimetro del potere gerarchico che quelle norme  riconoscono al Procuratore Capo, senza mettere in discussione ciò che la legge prevede, ma valutando i criteri con i quali viene applicata.

Un'occasione, quindi, per riaffermare il contenuto della Legge secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata e che non ne svilisse la portata.

Questo scrutinio, però,  sembra essere stato svolto solo ed esclusivamente attraverso la lente dell'appartenenza ad una corrente ed alla difesa incondizionata dei suoi appartenenti.

Non a caso, infatti, la parte della magistratura che nel recente passato aveva inteso ricostruire gli istituti introdotti dalla riforma con una forte ortopedia tesa ad annullare l'impronta gerarchica dell'Ufficio requirente, oggi si è al contrario schierata proprio in favore di un'impronta fortemente gerarchizzata, mentre quelli che erano favorevoli a tale ultima ricostruzione se ne sono allontanati fino quasi a negarla.

Insomma, un gioco delle parti che lascia molto a desiderare e che ha senz'altro impedito una valutazione serena della vicenda.

Uno dei principali obiettivi della legge delega di riforma dell'ordinamento giudiziario (L. 25 luglio 2005 n.150) fu proprio la riorganizzazione dell'ufficio del pubblico ministero.

Su tale obiettivo è intervenuto il D.Lvo 20.2.2006 n.106 nel cui art. 1, al comma 2, sono enunciate le finalità di fondo della riforma ovvero:

-        il corretto, puntuale e uniforme esercizio dell'azione penale al quale si ricollega la garanzia di buon andamento, di efficienza e di imparzialità dell'amministrazione de,lla giustizia ex art. 97 Cost.;

-        il rispetto delle norme sul giusto processo che rimanda ai principi dell'art. 111 Cost. ovvero del contraddittorio, della parità fra le parti, della terzietà e dell'imparzialità del giudice e della ragionevole durata del processo.

Questi, quindi i principi enunciati dalla legge e che ispirano l'assetto gerarchico dell'Ufficio del Pubblico Ministero.

Va da sé che ogni interpretazione delle norme, anche quella funzionale a risolvere un conflitto insorto all'interno dell'Ufficio di Procura, dovrebbe attenersi al rispetto di tali principi.

La decisione del CSM non ha certamente fatto tesoro di tali principi e nel tentativo di rafforzare l'autorevolezza della Procura di Milano, così le parole del Vice presidente Vietti, ha di fatto lasciato senza una valida e rassicurante risposta le questioni che il conflitto ha posto in evidenza

Questioni tutte che, attenendo ai criteri organizzativi dell'Ufficio, riverberano i loro effetti sullo stesso esercizio dell'azione penale proiettando un cono d'ombra sulla sua stessa obbligatorietà.

La discrezionale dilatazione dei tempi di iscrizione di una notizia di reato, con notizie di reato “parcheggiate” per mesi nel Registro Mod. 45 o per lunghi periodi di tempo non aggiornate, infatti,  sono fenomeni in grado di incidere negativamente sullo stesso esercizio dell'azione penale.

Le problematiche che si riconnettono alla ritardata iscrizione della notizia di reato, del resto, anche sotto il profilo schiettamente processuale, assumono una delicatezza particolare dal momento che attengono al controllo del potere spettante al pubblico ministero.

L'assenza di un tale controllo giurisdizionale, unita alla sostanziale mancanza di criteri organizzativi chiari e predefiniti, non può che dilatare il rischio di una concreta discrezionalità dell'azione penale sotto il paradossale ombrello protettivo dell'art. 112 Cost., con l'effetto di disegnare un potere davvero formidabile senza alcuna responsabilità.

Per non dire, poi, degli effetti che una simile situazione può riverberare sull'andamento delle stesse indagini.

Non è allora  sufficiente il richiamo all'esigenza di tener conto della responsabilità che la legge assegna al dirigente dell'Ufficio di Procura che sembra essere contenuto nella inedita missiva del Capo dello Stato – intervento questo che ha suscitato e continua a suscitare serie perplessità – per poter ritenere superati quei fenomeni.

I poteri gerarchici riconosciuti al dirigente della Procura e la sua conseguente responsabilità, che chi scrive ha sempre giudicato positivamente, non possono non accompagnarsi a criteri organizzativi chiari e precostituiti.

Questi ultimi sono, infatti, la  precondizione necessaria affinché l'esercizio di quei poteri non sconfini nell'arbitrio.

Tali sono le delicate tematiche che la decisione del Plenum del CSM ha lasciato insolute e che postulano, secondo la Camera Penale di Milano, l'esigenza di una riflessione pubblica e non autoreferenziale come quella del CSM.

Per questi motivi crediamo sia necessario ed urgente un confronto pubblico tra l'avvocatura e l'Ufficio di Procura su tali tematiche anche al fine di dare trasparenza ai criteri organizzativi di quell'Ufficio, sul presupposto che questa sia una materia che riguarda direttamente le garanzie dei cittadini.

Milano, 23 giugno 2014

                                                                                Il Consiglio Direttivo