13/12/2014 - Nota del Consiglio Direttivo del 13.12.2014


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Ancora sui rapporti tra giustizia e mass media ovvero dell'uso distorto del docudrama nella vicenda giudiziaria di Brega Massone

 

Sono giorni particolarmente intensi sul fronte della giustizia e del rapporto che con questa intreccia il complesso e variegato mondo dell'informazione.

 

Un intreccio delicato in cui trova attuazione l'irrinunciabile diritto costituzionale che tutela la manifestazione del pensiero mentre arretra sempre di più la soglia di tutela di altri diritti – altrettanto irrinunciabili – tutelati dalla Carta costituzionale come quello della presunzione di innocenza e del giusto processo.

 

Così, quando ancora arde il fuoco mediatico in cui si sta consumando la vicenda giudiziaria della madre accusata di aver ucciso il suo bambino, ecco che questa sera, su un canale della televisione pubblica, verrà trasmesso un docufilm sulla vicenda giudiziaria che riguarda Brega Massone, e ciò nonostante la stessa vicenda giudiziaria non sia ancora conclusa.

 

Ed è questo, ovvero la pendenza dei procedimenti che lo riguardano nessuno dei quali conclusosi con una sentenza definitiva, ciò che costituisce l'aspetto dal quale vorremmo partire per denunciare ancora una volta la gravità di alcune modalità con le quali si esercita l'informazione nel nostro Paese.

 

Il fatto di non aver visto il docufilm, e la stessa decisione del Tribunale di Roma che ne ha consentito la messa in onda,  non costituiscono ostacoli a che questa riflessione e questa denuncia si compia, dal momento in cui il profilo più critico – lo si vuole ancora sottolineare  – è costituito dal fatto che i processi a Brega Massone non sono conclusi, con le implicazioni che tale dato storico, come si vedrà, comporta.

 

Nel nostro Paese, almeno dagli inizi degli anni '90 si è creato un circolo vizioso fra autorità giudiziaria, soprattutto nella sua parte inquirente, e mezzi di informazione.

 

Un circolo vizioso in cui sono protagonisti i rapporti privilegiati tra taluni magistrati e taluni giornalisti; la comunicazione di atti e di documentazione facenti parte del fascicolo giudiziario prima del loro deposito alle parti interessate e quindi alla difesa; l'enorme risalto mediatico delle vicende giudiziarie viste e rappresentate secondo la prospettiva dell'accusa (qualcuno ha icasticamente parlato di un vero e proprio “buco della serratura”) attraverso cui si effettua una rappresentazione unilaterale, e spesso demonizzante, della persona sottoposta ad indagine.

 

Si consuma così l'indebita sostituzione del giudizio mediatico a quello dei Tribunali, le cui decisioni – spesso a distanza di anni dalla narrazione delle indagini –  vengono ignorate o minimizzate quando hanno contenuto demolitorio rispetto all'ipotesi dell'accusa.

 

Si realizza così il progressivo trasferimento delle funzioni giudiziali dal soggetto costituzionalmente deputato ai mezzi di comunicazione di massa.

 

Con quella che suona sempre meno come una battuta, potremo dire che la funzione deterrente costituita dalla pena carceraria è oggi sostituita dal fenomeno dilagante costituito dal naming is shaming.

 

In questo contesto si sono affermate forme di drammatizzazione scenica della vicenda giudiziaria, in cui le “carte” processuali vengono trasfuse in una sceneggiatura ed i vari soggetti del processo – dal giudice all'imputato, dal pubblico ministero al difensore ed ai testimoni – vengono interpretati da attori.

 

E' una specie del genere fiction, molto sperimentata negli USA  per la ricostruzione di fatti di cronaca, che ha preso il nome di docudrama o docufilm.

 

L'effetto che questa specie di rappresentazione produce rispetto alle dinamiche giudiziarie va molto oltre quello che attiene alla parziale ricostruzione a contenuto colpevolista.

 

Il linguaggio tecnico, ed a volte anche paludato del diritto, prende vita nella interpretazione degli attori, l'intonazione stessa della voce così come la stessa gestualità sono capaci di tradurre in realtà ciò che altrimenti sarebbe solo rappresentato dalla documentazione degli atti giudiziari.

 

Intuibile, e veramente grave, è l'effetto che simili trasmissioni dispiegano nei confronti delle vicenda giudiziarie che rappresentano.

 

Intuibile è l'elevato coefficiente di penetrazione e di incidenza che li caratterizza nei confronti dell'opinione pubblica e della formazione delle convinzioni della stessa in relazione alla vicenda giudiziaria rappresentata.

 

Tornando al caso di Brega Massone, è necessario avvertire che da qui a pochi mesi sarà celebrato il processo d'appello del giudizio di primo grado che si è concluso con una condanna per il reato di omicidio.

 

La Corte di assise di appello sarà composta da giudici togati e da giudici popolari, in maggioranza rispetto ai primi, estratti a sorte dalle apposite liste.

 

Semplici cittadini, dunque, che non si può escludere che questa sera siano spettatori del docudrama, esposti così alle sue suggestioni e ad una ricostruzione comunque parziale della vicenda.

 

Sorge allora una domanda dal carattere retorico e che racchiude il grave problema che il Tribunale civile di Roma sembrerebbe non avere considerato.

 

Quale sarà il grado di imparzialità che quei cittadini sapranno assicurare alla loro decisione?

 

In che misura riusciranno ad evitare l'inevitabile condizionamento che il docufilm eserciterà non solo su di loro ma sull'intera opinione pubblica?

 

Riusciranno a resistere a quella che ormai con terminologia accolta dal linguaggio comune chiamiamo pressione mediatica?

 

Ecco, allora, emergere la lesione che i principi costituzionali della presunzione di innocenza e del giusto processo subiscono, e la gravità degli effetti che il corto circuito mediatico-giudiziario proietta sul processo penale e sullo stesso grado di civiltà di cui questo è espressione.

 

Non a caso, già nel 2003, la Raccomandazione R (2003) del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa sull'informazione relativa ai procedimenti giudiziari, si basa sul principio enunciato dall'art. 10, comma 2, della CEDU, secondo cui la libertà di espressione, riconosciuta con particolare ampiezza, può – ma ormai viene da dire deve – essere limitata proprio per garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario.

 

Di questo si tratta,  anche se nel dibattito di queste ore di cui sono protagonisti gli instancabili epigoni del giustizialismo militante,  tale delicato profilo è del tutto, e non a caso,  pretermesso.

 

Il Paese non può più attendere che venga introdotta una disciplina rigorosa della comunicazione degli uffici giudiziari verso gli organi di informazione; una disciplina che sia espressione di un corretto temperamento tra la libertà di informazione ed i principi della presunzione di innocenza e del giusto processo.

 

Nè può più darsi per scontata l'esistenza di un interesse pubblico  che, come unico presidio del diritto di cronaca,  non ricomprenda anche in sé l'esistenza di un interesse  non del singolo ma della collettività per una corretta e non pre-giudicata  amministrazione della giustizia.

 

Sotto il profilo deontologico il contenuto del Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive varato nel 2009 è rimasto quasi lettera morta.

 

Occorre, pertanto, uno sforzo convinto da parte di tutti - giornalisti, magistrati ed avvocati -affinché si individuino regole capaci di impedire ciò che accadrà tra poche ore, quando si consumerà un'ingiustizia non solo nei confronti delle garanzie di un imputato, ma nei confronti di un sistema giudiziario che sia reale espressione di una vera e matura democrazia liberal-democratica.

 

Milano, 13 dicembre 2014

 

 

                                                                                    Il Consiglio Direttivo