27/11/2015 - Del Consiglio Direttivo


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ASTENSIONE: PERCHE’ NON SI PUO’ PARLARE DI “SETTIMANA BIANCA”

Si avvicina il 30 di novembre e nelle aule di giustizia qualcuno parla dei cinque giorni di astensione dalle udienze penali proclamati da UCPI il 3 novembre. Un giudice ha - nel corso di un’udienza preliminare per gravi reati con imputati detenuti - ritenuto di sbeffeggiare le ragioni dell’astensione, sottolineando di non poter rinviare il processo in quel periodo perché “le camere penali hanno proclamato la settimana bianca”.

Ora, cercando di superare la sgradevole sensazione di dileggio, proviamo a spiegare anche a questo magistrato (anzi, soprattutto a lui) perché ci asteniamo dalle udienze, premettendo che l’astensione non è una vacanza, perché - da un lato - il codice di autoregolamentazione ci impone di essere presenti all’udienza per dichiarare l’astensione e raccogliere la data di rinvio del processo e perché - dall’altro lato - le esigenze del nostro lavoro (atti in scadenza, appuntamenti con i clienti ed altri adempimenti rispetto ai quali l’astensione non opera) ci impongono di essere presenti e di continuare a lavorare.

Gli avvocati penalisti si astengono per le ragioni che seguono.

Perché il diritto di difesa è oggetto di pesanti attacchi e la figura del difensore di altrettanto pesanti offese.

Perché il processo mediatico sembra essere diventata la sede principale ove l’imputato viene giudicato e messo, poi, alla gogna. Il caso Bossetti è paradigmatico di questo clima diffuso: si confeziona un filmato - concordato, a detta di un testimone, tra Polizia Giudiziaria e Procura della Repubblica, mai confluito nel fascicolo processuale, ma consegnato ai mezzi di informazione - per precostituire nell’opinione pubblica la convinzione della colpevolezza dell’indagato. Analogamente avviene in moltissimi altri casi nei quali assume distorta rilevanza il pre-giudizio, spesso di colpevolezza, dell’opinione pubblica, che si forma in base alla trasmissione delle immagini degli arresti, alla pubblicazione di atti del procedimento, in violazione di un divieto volto a preservare la terzietà del giudice del vero processo, che, invece, sarà già stato celebrato sui media. Quella stessa opinione pubblica che non verrà, poi, adeguatamente informata dell’assoluzione di quell’accusato, già sottoposto alla pena della esposizione mediatica e la cui storia è stata ormai consumata.

Perché è allo studio del legislatore un modello generalizzato di processo virtuale in videoconferenza volto a ritenere la presenza dell’imputato un inutile aggravio di costi. Il tentativo di sperimentare questo nuovo sistema è stato messo a frutto nel processo denominato “Mafia Capitale”, nel quale si è cercato di estendere a tutti gli imputati la celebrazione del processo a distanza sulla base di generiche ragioni di sicurezza e dell’arbitrario ampliamento della qualificazione giuridica di fatti come “mafiosi”. Sappiamo invece quanto sia importante, per una buona difesa, la comunicazione con il proprio cliente nel corso del processo, situazione impossibile quando i colloqui, effettuati con apparecchi telefonici, soggiacciono a tempi e modi di funzionamento incompatibili con la rapidità dell’udienza penale, dell’incalzare degli esami e dei controesami. Sappiamo, inoltre, quanto sia importante il diritto di un imputato di guardare negli occhi il proprio giudice e del giudice di poter vedere negli occhi la persona da giudicare.

Perché il legislatore si preoccupa di aumentare a dismisura il tempo necessario per la prescrizione di un reato; di diminuire la possibilità di impugnare le decisioni di condanna; di dilatare l’area di applicazione di norme inizialmente concepite come eccezionali (recentissimo l’ampliamento delle misure di prevenzione anche ai sospettati di reati contro la P.A.), con una graduale sostituzione della regola con l’eccezione, creando così un sistema che non può evidentemente essere sentito come giusto e conforme ai principi costituzionali delle garanzie nel processo e della esecuzione della pena. Lo stesso legislatore non si preoccupa, invece, di affrontare seriamente il problema del carico enorme delle notizie di reato e della incontrollata dilatazione dei tempi delle indagini preliminari, né di riformare in modo deciso il sistema processuale in senso davvero garantista, con la conseguenza che è ancora lontana la realizzazione di un rito veramente accusatorio, con un giudice imparziale ed equidistante sia dal difensore che dall’accusatore.

Perché gli avvocati, garanti dei diritti di ogni cittadino, senza alcuna distinzione, sono quotidianamente attaccati, dileggiati ed accomunati ad un presunto profilo delinquenziale dei loro clienti. Un esempio di questo clima diffuso si è verificato a Bologna nel processo denominato “Aemilia” dove un’improvvida decisione della Procura Generale ha disposto che i difensori fossero sottoposti, per l’ingresso in aula, ad una meticolosa perquisizione, con accessi distinti tra difensori degli imputati e difensori delle parti offese, e vietato, altresì, la presenza in aula di praticanti e di collaboratori di studio.

Perché chiediamo rispetto e considerazione per la funzione che svolgiamo e perché non vogliamo che i cittadini subiscano gli effetti di norme in contrasto con il diritto di difesa costituzionalmente garantito.

Non faremo la settimana bianca, dunque, ma cercheremo di spiegare ai cittadini le ragioni della nostra protesta in una serie di occasioni pubbliche, alle quali, oltre agli avvocati, vorremmo che partecipassero i magistrati e soprattutto i cittadini per confrontarci con loro, senza pregiudizi di sorta sulle ragioni della nostra iniziativa.

Chiarito quanto sopra, appare a questo punto di palmare evidenza la gravità dell’affermazione utilizzata da quel giudice dell’udienza preliminare, il quale ha svilito ed irriso, con poche e mal scelte parole, il senso di un’iniziativa finalizzata, conformemente allo statuto dell’UCPI e delle Camere penali territoriali, a far valere i diritti di tutti.

Milano, 27 novembre 2015

Il Consiglio direttivo