10/02/2016 - La galera non è un paese per vecchi


News

Pubblichiamo una riflessione dell’avv. Marina Vaciago







LA GALERA NON E’ UN PAESE PER VECCHI

(E NEPPURE PER AMMALATI)

 L’art 7 della legge 5 dicembre 2005 n.25 ha introdotto la possibilità per i condannati ultrasettentenni, di scontare la pena ai domiciliari, salvo che si tratti di detenuti di particolare pericolosità. Che cosa si intende per particolare pericolosità? Risponde la Cassazione “ Il giudice è tenuto a ”dar conto dell’esistenza di esigenze cautelari di intensità così elevata e straordinaria da rendere in concreto inadeguata ogni altra misura”.

 E’ chiaro che non basta copiare il capo di imputazione, eppure è quello che succede, anche se la condanna è di 20 anni prima e il detenuto è ormai fuori da ogni contesto criminale e ammalato.

Anche per gli ammalati, il leitmotiv è sempre lo stesso: «E’ tutto sotto controllo, il paziente è curato e monitorato, le condizioni sono stabili, in caso di necessità sarà ricoverato in ospedale».

Sembra che i magistrati di sorveglianza abbiano dei moduli prestampati, identici da Milano a Reggio Calabria.

 Alcuni esempi: MM è diabetico, ha una capacità visiva ridotta a un cinquantesimo, vede solo le ombre, ha le gambe gonfie, con la pelle che si spacca, non può camminare . Avrebbe bisogno di fisioterapia, dieta adeguata, ha una famiglia che lo assisterebbe, eppure non c’è verso di farlo andare ai domiciliari, pur non avendo condanne per reati gravi.

Il paradosso: un giudice lo ha  dichiarato pericoloso e gli è stata inflitta la misura di sicurezza della casa di lavoro. Come farà a lavorare????

Un altro  caso di malasanità non solo in carcere. Il detenuto decide di fare lo sciopero della fame e digiuna per 30 giorni. E’ il mese di agosto. I sanitari del carcere dicono che simula. A settembre  il difensore chiede l’immediata scarcerazione per incompatibilità col carcere. La risposta è la solita: dopo due giorni, il paziente è ricoverato all’ospedale, i medici lo rimandano indietro, confermando che simula, il giorno successivo muore. Medici della struttura pubblica e del carcere sono tratti a giudizio su denuncia del difensore: archiviato. Non si ravvisano elementi di colpa.

 A volte si muore perche si è antipatici.

V.N  condannato al’ergastolo, torna in carcere dopo un periodo di liberazione condizionale a causa  di  alcune violazioni delle prescrizioni impostegli. Ha 67 anni, è malato di cuore. E’ disperato e affligge magistrati, guardie e direzione con rivendicazioni sull’ingiusta ripresa della carcerazione. Viene colpito da infarto. Il carcere chiama l’ambulanza dopo tre ore.  Il paziente viene trasportato dal carcere all’ospedale di Saluzzo, lì si accorgono che è troppo grave e lo trasferiscono a Cuneo. Anche per questo ospedale è troppo grave e viene trasferito in elicottero a Torino, dove giunge cadavere. Incompetenza? Incuria? Se l’avessero soccorso subito e portato subito a Torino forse si sarebbe salvato. Sorge il dubbio crudele: non lo hanno soccorso perché era un rompiscatole?

SP condannato a 30 anni per omicidio, ha 83 anni, è affetto da valvulopatia mitro-aortica, ipertensione arteriosa, glaucoma. A ciò si aggiunge la presenza di protesi al ginocchio, che non gli consentono la deambulazione autonoma senza forti dolori e l’impossibilità concreta di svolgere in carcere la fisioterapia della quale avrebbe bisogno.

Non vi è dubbio che, in queste condizioni di salute, anche i semplici disguidi, l’ascensore che non funziona,  e impedisce il colloquio col difensore, provocano ansia e disagio, che si vanno ad aggiungere alle obiettive condizioni patologiche ed alle sofferenze che ne conseguono.

Ci si domanda, soprattutto, se non sia contrario al senso di umanità il fatto di tenere in carcere una persona di oltre 80 anni, ammalata, in sedia a rotelle, che certamente non può più nuocere a nessuno e che ha già scontato 15 anni, ovvero che ha già trascorso in carcere l’ultima frazione di vita utile che un essere umano si può aspettare di vivere, un ergastolo sostanziale.

Gli studiosi di psicologia affermano che le pene per i minorenni debbono essere più brevi perché il tempo da loro percepito è doppio rispetto a quello percepito dall’adulto.

Questo concetto è stato ormai recepito ed adottato da tutti i Tribunali per i Minorenni. Eguale ragionamento dovrebbe valere per i vecchi: il tempo, in questo caso, infatti  non è percepito come più lungo, ma come molto più prezioso. Il protrarsi di questa carcerazione si pone ad una lontananza siderale dalla responsabilità di ritrovare e ricostruire se stessi, imposta dall’art. 27 della Costituzione. Non dimentichiamo che la Corte Costituzionale ha ritenuto la legittimità dell’ergastolo sulla base del presupposto che il condannato, scontati 26 anni, possa cominciare ad uscire e nel frattempo, rifarsi una vita, studiare, imparare un mestiere, ma che cosa può progettare per il suo futuro un ottantenne ammalato e solo? La sua pena assomiglia a quella della “oubliette” medievale, nella quale il condannato veniva, per l’appunto “dimenticato”.

Questa pena non ha alcuna funzione né di prevenzione generale né speciale, nessuna funzione rieducativa, ma pare una mera vendetta sociale per un delitto commesso in tempi remoti e che senza dubbio non potrebbe più ripetersi. Negare la detenzione domiciliare, in questo caso, non è forse un’istigazione al suicidio?

 Eppure, in questi casi, il ritornello è lo stesso “le condizioni di salute sono stabili e sotto controllo e il detenuto può essere curato in carcere o, all’occorrenza, in ospedale” la pericolosità si deduce dal delitto commesso 20 anni prima.

 Eppure la Cassazione ha spesso ribadito che : “E’ immanente al vigente sistema normativo una sorta di incompatibilità presunta con il sistema carcerario del soggetto che abbia compiuto 70 anni, sicchè l’indagine del giudice in ordine alle infermità che lo affliggono ed alla loro compatibilità con lo stato detentivo non è decisiva, seppur utile, mentre è determinante l’accertamento della sussistenza di circostanze eccezionali, tali da imporre l’inderogabilità dell’esecuzione stessa.”( vedasi per tutte Cass.I,  12.2.2001 n°16183 CED) ..

A fronte di questo quadro- continua la Corte- deve essere concretamente dimostrato il profilo della perdurante pericolosità sociale, profilo questo che, solo ove sussistente, consente di privare della libertà personale, con la misura più rigorosa, persona di età così avanzata, in contemperamento dei diversi interessi in gioco ed in armonia con i principi costituzionali posti a presidio di diritti fondamentali, quali quello della salute e della sicurezza pubblica”. Del pari inifluente dovrebbe essere la durata della pena residua.

Sul punto è intervenuta (invano) perfino la Corte Costituzionale (sentenza n. 414 del 1991)

" In tema di sospensione dell'esecuzione della pena per grave infermità fisica la durata della pena da espiare è ininfluente ai fini della valutazione dei presupposti della sospensione. Quest'ultima, invero, si pone in rapporto alla necessità di evitare che l'esecuzione della pena si risolva in un inutile aggravio di sofferenza per il condannato….

 (Nello stesso senso Cass.pen., sez. I, 6 luglio 1992, n.2819,. Cass. pen., sez.I, 3 marzo 1992, n. 358 (c.c. 27 gennaio 1992), Viola. Cass. Sez. I, 17 maggio 1997,n. 3046. .

Purtroppo la giurisprudenza più recente si è allineata su tendenze assai meno garantiste. Il differimento pena è ammesso solo se il detenuto non può essere curato in carcere, anche se, all’esterno, potrebbe essere curato meglio.

Spesso, perciò, la detenzione si traduce in una pena di morte, una crudele condanna a “morire in galera” fra sofferenze fisiche e morali. Siamo sicuri che questo corrisponda a giustizia?

 Milano 4 febbraio 2015

Marina Vaciago